Due giovani genitori trattano la loro prima bambina, praticamente da quando è nata, come una co-protagonista di ogni decisione importante da prendere nel nucleo famigliare.
Lo fanno bene, giocosamente, e la bambina non solo si diverte, ma considera questo essere consultata, essere membro di un ensemble che dà spazio e voce ad ognuno, un fatto del tutto scontato, parte intrinseca delle reciproche identità e delle forme di autorità accettabili. Succede tuttavia che man mano che la bambina cresce, i motivi di dissenso e di incomprensione diventano più netti e si polarizzano intorno a scelte alternative relative per esempio a come passare il tempo libero, chi va con chi e quando o anche in scontri di gusti e opinioni. I genitori di fronte a questi conflitti si comportano come se avessero letto e assunto come manuale La Società aperta e i suoi nemici di Popper; cioè rivolgendo alla figlia l’invito di discutere democraticamente i pro e i contro di ognuna delle opposte posizioni. Ma, come mi hanno raccontato fra il divertito e lo sgomento gli stessi genitori, tutta questa bella e lodevole impalcatura ha incominciato a scricchiolare un giorno quando la bambina, allora di quattro anni, di fronte all’invito ad avvicinarsi per discutere con calma i pro e i contro di una sua pretesa, ha risposto: «No. Non vengo, se no tu mi convinci!».
FONTE: Marianella Sclavi, «Ascolto Attivo e seconda modernità, Sul discutere i pro e i contro e sulla gestione creativa dei conflitti», in Rivista di Psicologia Analitica, n. 19, 2005, pp. 137–59.